“Il cavaliere inesistente” | Medici per i Diritti Umani

“Il cavaliere inesistente”

F. è un uomo dall’aria discreta, bei baffi, occhi gentili, parla un inglese fluente e delicato. Si intravede una sofferenza controllata, inizialmente parla poco, come se pensasse che quello che dice non ci interessa. Ci dice che non riesce a fare la richiesta d’asilo. Sembra assurdo ma ultimamente la Questura di Roma ha deciso di non prendere le richieste d’asilo, per problemi tecnici probabilmente, con conseguenze disastrose sulla vita di persone che nonostante abbiano manifestato la volontà di richiedere la protezione internazionale non ricevono uno straccio di documento/foglio/cedolino con il rischio di essere fermati per strada e messi in un CIE. Ci parliamo un po’ e gli chiediamo di raccontarci bene la sua storia, la questione delle richieste d’asilo non accolte, per usarla come testimonianza. Ci sediamo e lui inizia a raccontare la sua storia dall’inizio.
Viveva in un villaggio vicino Ghazni con la sua famiglia, moglie e quattro figli, tre maschi e una femmina. Ha studiato all’accademia militare e poi ha lavorato come poliziotto. Un giorno un commando di talebani è arrivato a casa sua, accusandolo di lavorare contro di loro, lui si è difeso dicendo che non era vero, che non voleva avere problemi. Quella però era solo la prima di diverse visite che gli fecero i talebani, minacciandolo e accusandolo. L’ultima volta arrivarono di sera, gli dissero che doveva uscire e andare con loro. Il suo inglese fluente a questo punto diventa stentato. Si rifiuta di aprire la porta, gli dice di tornare la mattina dopo, che avrebbero parlato. Anche il fratello lo aiuta, lo convince a non aprire per niente al mondo. I talebani però iniziano a sparare e il fratello risponde al fuoco. Nello scontro muoiono il fratello e il figlio maggiore. F. viene colpito alla schiena e alla gamba. Non possono uscire di casa fino alla mattina perché è troppo pericoloso. F. viene portato all’ospedale e curato. Quando lo dimettono il padre, che ha quasi ottanta anni, lo supplica di andarsene, lui risponde che non sa dove ma il padre gli dice che deve andare, ovunque, in Pakistan, dove vuole, ma deve lasciare il paese. F. inizia così il suo viaggio, attraversa il Pakistan, l’Iran, l’Iraq, la Turchia, i Balcani e arriva in Italia, ponendosi sempre la stessa domanda: dove vado?
A Gorizia decide che è arrivato, si vuole fermare, ha visto troppi paesi e non si è ancora dato una risposta. Va dalla polizia a chiedere protezione e anche loro gli fanno la stessa domanda: dove vuoi andare, in Slovenia o in Italia? e lui risponde che non lo sa, loro cosa consigliano? L’Italia, dicono, e Italia sia. Però non gli lasciano fare la richiesta d’asilo, non sa perché, mancanza di personale, difficoltà di comunicazione forse. Allora va a Trieste, ma neanche lì riesce a fare domanda, poi Venezia e Roma, sempre lo stesso problema. Vuole essere identificato, fotosegnalato, vuole avere un qualche feedback dal mondo che gli confermi la sua esistenza. Mi racconta che per strada nessuno gli parla, non ha nessuna interazione se non con qualche afghano come lui, magari di Ghazni, da cui cerca di avere notizie della famiglia. La moglie non la sente da dieci mesi, lei deve chiedere il permesso ai talebani per arrivare in città, con difficoltà è riuscita a portare all’ospedale uno dei bimbi che si era ammalato, raramente riesce ad andare per una telefonata. Ci fa vedere delle foto, i suoi figli e una di lui, in divisa, i bei baffi e l’aria orgogliosa. Dice, questo ero io. Lo mandiamo alla scuola di italiano, gli diamo un certificato da portare in Questura, in cui chiediamo che venga accolta la domanda, solo così può avere diritto a un posto in accoglienza.
Ci ringrazia per la giornata, non so se la sua storia l’aveva mai raccontata.
Domani è il suo compleanno.