UNA MALATTIA CHIAMATA TORTURA. ROTTE MIGRATORIE DALL’AFRICA SUB-SAHARIANA ALL’EUROPA | Medici per i Diritti Umani

UNA MALATTIA CHIAMATA TORTURA. ROTTE MIGRATORIE DALL’AFRICA SUB-SAHARIANA ALL’EUROPA

Roma, 26 Aprile 2017 – “Gli uomini, le donne e i bambini che sbarcano sulle coste italiane si trovano in una condizione simile a coloro che sono reduci da una guerra. Una guerra non solo dell’uomo contro l’uomo – tutte lo sono – ma una guerra particolare contro l’umanità che ne deturpa l’essenza più preziosa.”

Oggi a Ginevra Alberto Barbieri presenterà per Medici per i Diritti Umani il documento “Una malattia chiamata Tortura. Rotte migratorie dall’Africa Sub-Sahariana all’Europa” all’incontro su Migrazioni e Tortura organizzato dal Fondo delle Nazioni Unite contro la Tortura.

UNA MALATTIA CHIAMATA TORTURA.
ROTTE MIGRATORIE DALL’AFRICA SUB-SAHARIANA ALL’EUROPA

di Alberto Barbieri (Medici per i Diritti Umani)

La tortura sulle rotte migranti

E’ una calda serata di luglio a Roma. In una stretta strada vicino all’Università centinaia di giovani uomini, di donne e di bambini  si preparano ad occupare il manto stradale per trascorrervi la notte. Dormiranno sull’asfalto con qualche coperta e sacco a pelo donato da cittadini e associazioni di volontariato. Sono appena arrivati in città, provengono quasi tutti dal Corno d’Africa, in  particolare dall’Eritrea. Le istituzioni della città di Roma non sono state capaci di offrire loro alcun tipo di accoglienza. Molti di loro tra alcuni giorni o settimane riprenderanno il viaggio verso la Germania, i paesi scandinavi e altre città dell’Europa del Nord.  Fuori dalla clinica mobile di Medici per i Diritti Umani (Medu), una ventina di persone è in attesa di essere visitata. Awat, 23 anni, è il primo a salire e a raccontarci il suo personale olocausto. Ha una ferita lacero-contusa al piede che si sta sovrainfettando. Se l’ è provocata su una spiaggia libica mentre saliva su un barcone con altre 150 persone. E’ stato colpito con un bastone da uno dei trafficanti che picchiava selvaggiamente chiunque non riuscisse ad imbarcarsi alla velocità da lui desiderata. Visitiamo Awat, medichiamo la ferita e raccogliamo la sua storia. E’ fuggito nove mesi fa dalla dittatura eritrea e dal servizio militare a tempo indefinito. Ha pagato dei trafficanti della tribù Rashaida per raggiungere il Sudan. Dal campo profughi di Shagarab, “un luogo infernale di soprusi e di violenze”, si è spostato a Khartoum. Dalla capitale sudanese ha attraversato il deserto del Sahara verso la Libia insieme ad altri 20 migranti su un pick up gestito da trafficanti.  Il viaggio è durato 5 giorni.  Sono rimasti a lungo senza acqua né cibo. Alcuni non ce l’hanno fatta e sono stati abbandonati nel deserto. Arrivato nella città di Agedabia, Awat rimane prigioniero di un gruppo armato per due mesi insieme ad altre decine di migranti del Corno d’Africa. I miliziani gli chiedono 1.000 dollari in cambio della libertà e lo sottopongono ai lavori forzati. Awat subisce percosse quotidiane e deprivazione di cibo e di acqua. Una volta pagato il riscatto raggiunge la Libia occidentale ma nei pressi di Tripoli viene arrestato e rinchiuso in qualcosa che dovrebbe assomigliare ad un carcere. Awat racconta di  centinaia di persone ammassate in una cella senza spazio per sedersi e per dormire. I prigionieri vengono picchiati tutti i giorni con bastoni e  tubi di gomma.  Molti non ce la fanno e  muoiono di stenti, senza alcuna assistenza medica. Awat deve di nuovo pagare una somma per fuggire dal carcere, raggiungere la costa e mettersi di nuovo nelle mani dei trafficanti che gestiscono i barconi. Da lì raggiunge l’Italia attraversando il canale di Sicilia. Dopo Awat, sale sulla nostra clinica mobile Azezet, 19 anni, anche lei eritrea. Azezet è incinta al quarto mese. E’ rimasta prigioniera in Libia per tre mesi ed è stata ripetutamente violentata. E’ così che i nostri medici e volontari incontrano quotidianamente decine di persone, le loro sofferenze  incise nel corpo e nella mente, e trovano dietro di esse un’altra  malattia chiamata tortura.

Oltre il 90% dei migranti assistiti negli ultimi anni dalla clinica mobile di Medu  ha raccontato di essere stato vittima d violenza estrema, di tortura e di trattamenti inumani e degradanti nel paese di origine oppure lungo la rotta migratoria, ed in particolare in luoghi di detenzione e sequestro in Libia. D’altra parte, sia il team medico-psicologico di Medu che opera a Roma nel Centro Psyché  per la  riabilitazione delle vittime di tortura sia  quello che lavora nel progetto ON.TO  all’interno dei centri  di accoglienza in Sicilia, incontrano migranti provenienti per lo più dall’Africa occidentale ma le storie di violenze e soprusi sono per molti aspetti simili a quelle riferite dai profughi provenienti dal Corno d’Africa.  E ancora, il progetto di supporto ai migranti vulnerabili in Egitto ha documentato negli anni le atroci violenze subite nel Sinai da centinaia di migranti eritrei prigionieri a scopo di estorsione di bande criminali  beduine: una sorta di  macabro prototipo di quanti si è poi riprodotto in Libia in larga scala. In un percorso speculare a quello dal Corno d’Africa, la maggior parte dei migranti provenienti dall’Africa occidentale converge in Niger per poi attraversare il deserto del Sahara sulle rotte gestite dai trafficanti e raggiungere Sabha in Libia attraverso quella che viene chiamata la “via del inferno”,  un tratto del deserto del Tenerè altrettanto pericoloso e mortale del Canale di Sicilia. La privazione di cibo e acqua, le disumane condizioni di prigionia, le gravi percosse sono le forme più comuni e generalizzate di maltrattamenti che subisce la quasi totalità dei  migranti proveniente dall’Africa sub-sahariana. Vi sono poi le percosse ai piedi (falaka); le torture per sospensione e posizioni stressanti; le ustioni provocate con i più disparati strumenti; le scariche elettriche; gli stupri e gli oltraggi sessuali; gli oltraggi religiosi e altre forme di trattamenti degradanti; la privazione di cure mediche; l’obbligo di assistere a torture e trattamenti crudeli ai danni di altre persone; le minacce ai danni propri  o delle proprie famiglie. Nove migranti su dieci hanno dichiarato di aver visto qualcuno morire, essere ucciso, torturato o gravemente percosso.

Nei fatti,  il centro di questo mostruoso sistema di violenza è oggi  la Libia, un enorme campo di sfruttamento e di morte per i migranti.  Il business della migrazione nel deserto del Sahara, in Libia e nel Mar Mediterraneo è gestito sia da gruppi di trafficanti altamente organizzati sia da gruppi estemporanei o anche da  individui che agiscono isolatamente. La rete del traffico è una catena a maglie lente, in cui anche un singolo individuo può inserirsi e sfruttare i migranti vulnerabili, attraverso sequestri, lavoro forzato, estorsione di denaro e abusi di ogni tipo. I migranti transitati dalla Libia hanno identificato un insieme ampio di soprusi e violenze perpetrati da differenti attori: agenti di polizia,  militari e miliziani libici, che, all’interno di  carceri, campi militari e luoghi di sequestro , infliggono torture a abusi al fine di estorcere denaro ; bande armate come gli Asma Boys, che gestiscono “luoghi speciali” dove i migranti vengono quotidianamente picchiati e seviziati fino a quando non riescono a pagare un riscatto; gruppi armati di trafficanti professionisti operanti in particolare nel deserto del Sahara e sulle coste libiche, i quali spesso  vendono o rapiscono i migranti in cambio di denaro; civili libici e uomini di affari che possono sfruttare i migranti trattandoli come schiavi e costringendoli a condizioni di vita insopportabili; libici o anche africani sub-sahariani che gestiscono Foyer e che usano violenza nei confronti di coloro che non riescono a pagarsi l’alloggio.

I traumi estremi come la tortura e le violenze ripetute sono dunque  un’esperienza tragicamente comune lungo il viaggio dall’Africa subsahariana all’Europa. Nei centri di accoglienza in Sicilia, l’82% dei richiedenti asilo seguiti dal team medico-psicologico di Medu presentava ancora segni fisici compatibili con le violenze riferite. Oltre ai segni fisici vi sono poi, spesso più insidiose e invalidanti, le conseguenze psicologiche e psicopatologiche. Tra i disturbi psichici più frequentemente rilevati dai medici e dagli psicologi di Medu, vi sono il Disturbo da stress post traumatico  (PTSD) e altri disturbi correlati ad eventi traumatici ma anche disturbi depressivi, somatizzazioni legate al trauma, disturbi d’ansia e del sonno. Spesso questi disturbi ricevono meno attenzione delle malattie fisiche, vengono ignorati o diagnosticati in ritardo. Questo, oltre a comportare un peggioramento e una cronicizzazione del quadro clinico, provoca gravi difficoltà al percorso di integrazione dei migranti nei paesi di asilo.

Un’epidemia silenziosa

Ibrahim ha vent’anni  ed è fuggito dal Mali a causa della guerra interna. Questa è la sua storia. Viene sequestrato da un gruppo armato per essere reclutato come combattente. Poiché rifiuta di imbracciare le armi  viene sottoposto ad innumerevoli violenze e torture. Subisce anche l’amputazione del dito di una mano.  Al momento della fuga viene colpito di striscio da due pallottole. Ibrahim  raggiunge poi la Libia attraverso il Niger e il deserto del Tenerè, la via dell’inferno gestita dai trafficanti. In Libia lavora per qualche tempo senza essere pagato e successivamente viene arrestato e rinchiuso per 5 mesi  in un carcere spaventosamente sovraffollato. Viene percosso quotidianamente. Subisce violenza sessuale. Viene deprivato di cibo e acqua e vede vari compagni di cella morire di stenti. Riesce infine a fuggire e ad imbarcarsi per l’Italia. Il viaggio attraverso il Mediterraneo è drammatico, il barcone è sovraccarico di persone e coloro che rimangono sotto muoiono schiacciati dal peso degli altri. All’arrivo in Italia, nell’hotspot di Pozzallo, viene sottoposto ad interrogatorio da parte della polizia che è alla ricerca degli scafisti. Effettua richiesta d’asilo e viene poi trasferito in un centro di accoglienza alla periferia di Roma. All’ingresso viene sottoposto ad una veloce visita medica. Dopo qualche tempo le ferite delle molteplici violenze subite si rimarginano lasciando delle cicatrici ben visibili. Persistono però i dolori, in particolare una cefalea persistente e dei dolori lombari in prossimità delle parti in cui veniva percosso in Libia. Ma sono le condizioni psicologiche di Ibrahim a subire il più drammatico peggioramento.  Il ragazzo non si fida di nessuno e non racconta la sua storia se non in modo molto generico agli operatori del centro. Passa le giornate nella sua stanza  svolgendo pochissime attività, anche perché la struttura di accoglienza è lontana dal centro della città e al suo interno non sono previste attività.  Dall’arrivo in Italia è presente una insonnia che si aggrava progressivamente. Il sonno di Ibrahim dura poche ore ed è funestato da continui incubi che lo riportano in mezzo al mare e nei campi di prigionia in Mali e in Libia. Durante il giorno rimane spesso in uno stato di stordimento salvo poi allarmarsi e manifestare reazioni spropositate per situazioni insignificanti come lo sbattere di una porta.  Nel centro viene visto come un soggetto difficile che già in varie occasioni si è scontrato verbalmente con altri ospiti e con gli operatori . Una sera Ibrahim esplode in una vera e propria crisi probabilmente provocata dal volume della radio troppo alto tenuto da altri ospiti del centro. Urla, getta a terra un computer. Spacca un vetro con un pugno ferendosi la mano. Viene portato al pronto soccorso e poiché i medici percepiscono intenzioni suicidarie, viene ricoverato nel reparto psichiatrico.  All’interno del reparto non ci sono però mediatori culturali e linguistici e la comunicazione tra il paziente Ibrahim e gli psichiatri è quasi inesistente. Viene somministrata una terapia farmacologica sedante e il ragazzo viene dimesso dopo una decina di giorni. Poiché non ci sono posti disponibili  nei centri di accoglienza per vulnerabili, Ibrahim ritorna nella stessa struttura da cui proveniva. Il suo atteggiamento di chiusura e le sue condizioni di isolamento sembrano acuirsi nelle settimane successive al ricovero.

L’arrivo in Italia di un crescente numero di migranti forzati, molti dei quali vittime di violenza o tortura nei paesi di origine o di transito, rende sempre più urgente garantire un efficiente sistema di accoglienza e un’adeguata assistenza medico-psicologica. Lo scorso anno sono stati 181mila i migranti sbarcati in Sicilia e nelle altre regioni dell’Italia del Sud, il numero più alto mai registrato.  I morti e i dispersi nella traversata sono stati più di 4.500. La gran parte proviene dall’inferno dalla Libia e in misura minore, spesso in condizioni altrettanto drammatiche, dall’Egitto.  E’ questa la vicenda umana che forse più sta segnando il nostro tempo e le cui conseguenze si riflettono sulla salute fisica e mentale di un’intera generazione di giovani africani; un viaggio in cui, come ha detto un testimone, “non sei più un essere umano”. Se infatti tantissimi giovani dimostrano un’incredibile capacità di reazione ad un fardello di esperienze limite che, in molti casi, sfugge alla nostra stessa capacità di comprensione, è parimenti vero che molti di essi riportano una devastante lacerazione nel fisico e nell’anima. Ed è proprio la dimensione psichica ad essere allo stesso tempo  la più colpita e la più trascurata. Secondo la letteratura scientifica internazionale , il 33-75% dei sopravissuti a traumi estremi svilupperà successivamente un disturbo psichico conclamato.  Non solo; le conseguenze psicologiche e psicopatologiche della tortura se non tempestivamente individuate e curate alimentano una dinamica in cui sofferenza psichica, isolamento ed emarginazione si amplificano reciprocamente in un perverso circolo vizioso. In mancanza di adeguati servizi territoriali attrezzati per rispondere a questo tipo di bisogni,  la prima porta di accesso al servizio sanitario nazionale può diventare in alcuni casi un reparto psichiatrico di ospedale che cura i casi acuti. Questo comporta spesso  percorsi terapeutici inadeguati ed anche costi sproporzionati per il sistema sanitario che sarebbe possibile evitare con adeguate strategie di prevenzione e di cura. Anche in assenza di esiti così gravi, la sofferenza psichica rappresenta in ogni caso un potente ostacolo ad ogni percorso di integrazione.

Non è esagerato affermare che in Italia questo fenomeno sta provocando una sorta di epidemia silenziosa – soprattutto in città con forte concentrazione di migranti come Romale cui dimensioni e gravità dal punto di vista sanitario e sociale sono oggi ancora difficili da comprendere. E necessario dunque che maturi in primis una piena consapevolezza culturale del problema a cui seguano coerenti e credibili riposte  terapeutiche e psico-sociali.

Come i reduci di una guerra

“Sono fuggita dal mio paese perché non volevo che mia figlia fosse infibulata, come è capitato a me da bambina” racconta Akissi, 27 anni dalla Costa d’Avorio, ora ospitata a Mineo (Sicilia), nel centro di accoglienza per richiedenti asilo più grande d’Italia con oltre tremila ospiti.  “Non volevo che mia figlia soffrisse come ho sofferto io. Ho lasciato il mio paese e ho raggiunto mio fratello in Libia. Un giorno un gruppo di miliziani è entrato nella nostra casa. Ero terrorizzata. Urlavano ed imbracciavano dei fucili. Ci hanno picchiato ed io sono stata violentata di fronte a mio fratello e a mia figlia. Mio  fratello ha cercato di difendermi ma è stato selvaggiamente picchiato. Hanno preso anche mia figlia e l’hanno violentata con le dita. Ora sono qui ed ho paura. Questo centro non va bene per mia figlia. Una sera eravamo in fila per ricevere il pasto ed un uomo gli ha dato una schiaffo perché per lui stava parlando troppo. Ho paura. Non dormo la notte. Non mi sento al sicuro. In questo grande centro ci sono tanti uomini che bevono, tante persone che possono entrare nel nostro alloggio. Ho paura: possono fare del male a me e a mia figlia”.

Gli uomini, le donne e i bambini che sbarcano sulle coste italiane si trovano in una condizione simile a coloro che sono reduci da una  guerra. Una guerra non solo dell’uomo contro l’uomo – tutte lo sono – ma una guerra particolare contro l’umanità che ne deturpa l’essenza più preziosa. Se è difficile intervenire per fermare le atroci violenze che si consumano sulle rotte migratorie, certamente è possibile, oltre che doveroso, intervenire sulle ritraumatizzazioni che si possono produrre in Italia e in Europa. L’accoglienza e i suoi modi divengono allora una variabile fondamentale, ancora prima degli approcci terapeutici, nel percorso di riabilitazione della persona sopravissuta alla tortura e alla violenza intenzionale.  E’ necessario che le strutture di accoglienza siano di piccole dimensioni e non grandi centri, che siano integrate geograficamente e socialmente in una comunità e non isolate dal territorio circostante, che gli operatori dei centri siano in numero sufficiente ed adeguatamente formati nel fornire ascolto e assistenza. La letteratura scientifica è concorde nel rilevare che la quantità e gravità dei sintomi psicopatologici post-traumatici è direttamente proporzionale al numero di traumi subiti soprattutto se essi sono di natura interpersonale come la tortura. Particolare rilevanza è stata di recente attribuita alla cosiddetta “ritraumatizzazione secondaria”. Subire ritraumatizzazioni moltiplica in modo esponenziale l’effetto psicopatologico del trauma, aggravando i sintomi, peggiorando il decorso e, in diversi casi, facendo emergere ex-novo una sintomatologia che non era comparsa dopo l’evento originario. Ma non solo, mentre l’evento traumatico originario deve avere caratteristiche intrinseche di estrema gravità, gli eventi ritraumatizzanti possono al contrario anche essere minimali, e ciononostante innescare una grave reazione post-traumatica. Si  è visto, ad esempio,  che nei rifugiati e richiedenti asilo un effetto ritraumatizzante è dato da esperienze come essere affrontato da personale in divisa o essere chiuso in una stanza senza poter uscire (eventi che ricordano la detenzione in cui si è prodotto il trauma iniziale), oppure semplicemente essere oggetto di battute umilianti o di aggressioni verbali senza poter reagire ( situazioni che rimandano alla condizione di impotenza vissuta durante l’evento traumatico originario). Ed in effetti, nella nostra esperienza abbiamo potuto verificare la grave inadeguatezza delle macro-strutture di accoglienza che ospitano migliaia di persone (come i CARA italiani) nel dare un’adeguata protezione ai migranti  più vulnerabili ed in particolare alle vittime di tortura sia per la carenza dei necessari servizi di riabilitazione sia per il rischio di trovarsi esposti  a situazioni che possono facilmente rievocare luoghi non sicuri e ri-attualizzare delle ferite profonde.

Un altro fattore che può avere effetti particolarmente negativi sulle vittime di tortura, è rappresentato dai lunghi tempi di attesa della procedura d’asilo all’interno dei centri di accoglienza, trascorsi senza avere la possibilità di svolgere alcuna attività significativa. La condizione di passività, il vuoto trascorrere delle giornate,  viene inevitabilmente riempito dalla memoria di ciò che si è perso, dai ricordi delle violenze subite come anche dall’incertezza sul proprio futuro favorendo sentimenti di tristezza e di angoscia che vanno ad acuire ulteriormente l’isolamento della persona e ad intaccarne la volontà di agire.  Nel nostro approccio alla riabilitazione delle vittime di tortura, l’intervento psicosociale assume perciò una valenza fondamentale accanto all’azione clinica (psicoterapeutica e medico-psichiatrica) sia attraverso attività dirette come i gruppi musicali sia attraverso un continuo orientamento dei pazienti verso una rete sinergica di organizzazioni. Che sia l’apprendimento della lingua italiana o la formazione professionale oppure ancora  attività culturali, sportive o ricreative, è essenziale intervenire per rimotivare la persona, strapparla all’isolamento e permetterle di ricominciare a pensare al proprio futuro.

Dal punto di vista più propriamente clinico è necessario individuare il più precocemente possibile le vittime di violenza intenzionale già dai primi momenti dell’accoglienza. A questo scopo può essere utile l’utilizzo di brevi questionari di screening utilizzabili da personale non specialistico come ad esempio  il questionario Protect, il cui uso è stato proposto da Medu all’interno dei centri di accoglienza da parte degli stessi operatori. In questo senso i centri di accoglienza non devono essere luoghi di ritraumatizzazione bensì spazi dove si accoglie e si fornisce un primo ascolto alle sofferenze della persona attraverso personale (non necessariamente clinico) adeguatamente formato e dotato anche di strumenti tecnici in grado di rilevare il disagio. L’individuazione dei soggetti più vulnerabili che presentano probabili  sequele fisiche e psico-patologiche al/i trauma/i deve poi essere seguita dall’opportuno invio presso strutture  adeguatamente attrezzate per una valutazione clinica e psico-sociale della persona. Come si è già avuto modo di rilevare, questo anello fondamentale per la presa in carico dei migranti vittime di tortura è spesso gravemente carente in gran parte del territorio italiano.

L’esperienza di Medu nella riabilitazione medico-psicologica dei migranti vittime di tortura si è articolata sia in interventi all’interno dei centri di accoglienza con un team mobile in Sicilia sia attraverso un struttura esterna ai centri di accoglienza come il centro Psyché a Roma. Sa da un lato lo stare all’interno dei centri favorisce senza dubbio un’individuazione precoce dei soggetti più vulnerabili dall’altro l’inadeguatezza degli spazi e l’assenza di privacy sono spesso fattori che inficiano la costruzione di un setting adeguato di cura. D’altra  parte il percorso che deve compiere il paziente per raggiungere un centro esterno è per certi aspetti di per se terapeutico implicando ogni volta una libera scelta della persona che ne recupera l’autonomia e la motivazione permettendole di sfuggire a quella logorante spirale di passività e isolamento di cui abbiamo già parlato.

L’approccio di Medu alla riabilitazione dei migranti sopravissuti a tortura è dunque multimodale con i due assi, clinico e psicosociale, che interagiscono sinergicamente tra di loro  e si avvalgono entrambi dell’apporto fondamentale dei mediatori culturali, ponte essenziale tra lingue e visioni del mondo. Il percorso terapeutico è visto in questa prospettiva come cammino comune tra migranti, terapeuti ed operatori di Medu in  cui la prima fase è rappresentata proprio dalla costruzione dell’alleanza terapeutica, della stabilizzazione sintomatologica e della creazione della rete di sostegno psico-sociale. In questa tappa o in quelle successive, spesso un bisogno fondamentale del migrante è quello del supporto legale in funzione del riconoscimento del proprio status giuridico  e da questo punto di vista la certificazione medico-psicologica rappresenta un elemento importante all’interno del percorso di cura e mai disgiunto da esso.  La seconda  fase, quella sulla ricostruzione delle memorie traumatiche, è basata essenzialmente sul processo della narrazione (qualcosa di profondamente riconosciuto, anche dal punto di vista culturale, nella gran parte dei nostri pazienti) che con l’ausilio di specifiche tecniche permette alla persona di cercare una propria via di guarigione senza oblio ed in molti casi di trasformare la propria condizione di vittima degli uomini in quella di testimone per gli uomini. In questa prospettiva, la testimonianza e l’informazione/formazione rivolte sia agli operatori del settore sia ad un pubblico più ampio, sono gli altri tasselli fondamentali che compongono il lavoro di Medu contro la tortura.

Roma, 25 aprile 2017

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Medici per i Diritti Umani (MEDU), organizzazione umanitaria indipendente, fornisce dal 2004 assistenza e orientamento socio-sanitario ai rifugiati in condizioni di precarietà nell’ambito di differenti programmi in Italia e in Nord Africa.



Tipo di documento: Comunicati stampa, Report,
Progetto: Psychè